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Servizio Civile: Lascia la porta aperta

La gente, le persone: entrano dalla porta e restano dentro.

Oggi la TV era accesa, al telegiornale parlavano della bambina morta in Sicilia in un trasferimento arrivato troppo tardi. Una neonata, internet, TV, la mamma che scrive su facebook. Una domenica pomeriggio ero su Facebook, all’internet point di Angamarca, e sono venuti a chiamarmi perché c’era un parto complicato in una comunità che si chiama Chine Alto.

Chiamiamo il dottore ecuadoriano che, con il tempo, è diventato anche un amico e andiamo. Arriviamo ed entriamo nella casa, una choza di fango dove non si vede nulla e la vista deve abituarsi. Quando i nostri occhi si abituano alla poca luce, troviamo una donna in ginocchio con un corpicino inerte tra le gambe, la testa non è uscita e il bambino o bambina, non riesco a ricordare ora, è morto.

Quattro gravidanze, due nati podalici morti e nessun controllo prenatale. La mamma sanguina, la carichiamo in ambulanza e la portiamo all’ospedale di Zumbahua. Ci fermiamo ad Angamarca, il papà non viene in ospedale, ma vuole benedire il corpicino. Non c’è nessuno in casa parrocchiale, vado io. Lo tengo tra le braccia, mi sporco di sangue, dico una preghiera… Acqua benedetta… Andiamo all’ospedale.

Un altro mondo… Eppure se vai a Quito sembra di stare un po’ in Europa. Smartphone, auto di lusso, il presidente vuole imporre le cucine a induzione. Anche qui è entrato il “mondo”. Quante storie ho paura di dimenticare: “Allora com’è andata?” ” Che cosa mangiavi?” “Com’era il clima?” “Che cosa facevi?” “Com’è la gente?”

La gente, le persone: entrano dalla porta e restano dentro. Bambini, vecchietti, mamme, papà, ragazzi e ragazze. Me ne sono andata e mi sento un po’ una traditrice. Sono tornata alla mia vita comoda, facile, divertente, ma loro sono tutti lì. Ho paura di dimenticarli, di farmi prendere da tante cose e non pensarci più. Sono contenta che qualcun altro partirà.

Penso a ciò che farei io se tornassi indietro ora, starei con la gente il più possibile. L’ho fatto, ma lo farei ancora e ancora. Affronterei la stanchezza, il mal di gambe, la pioggia. Vai e basta.

Sono andata, ma andrei mille volte ancora. Mi lascerei andare agli abbracci. Da quando sono tornata abbraccerei tutti. Starei con i ragazzi e con i bambini, soprattutto con quelli che ti saltano addosso appena ti vedono. Loro si scorderanno di me, come è normale che sia, ma io no. Sorriderei anche quando sono nervosa, stanca, triste, arrabbiata.

La cosa più importante di tutte, quella che ha fatto la differenza, quella che più mi manca:

Lasciare la porta aperta.

Ester Tirloni e Vanessa Gianni, volontarie IBO in Servizio Civile in Ecuador 2014-2015

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